Se ti dico “Arlecchino” probabilmente ti viene in mente la famosa maschera della Commedia dell’Arte dal vestito multicolore, protagonista della commedia di Goldoni Arlecchino servitore di due padroni e classico travestimento di Carnevale per bambini. Ma forse non sai che questo personaggio cela delle radici tenebrose, che lo fanno appartenere, oltre che al Carnevale, anche al periodo di Ognissanti, di cui in un certo senso può considerarsi il sovrano. Come? Vediamolo insieme in questo articolo.
Zanni e la commedia dell'arte
Nella Commedia dell’Arte la figura del buon vecchio Arlecchino deriva da quella di “Zanni”, un personaggio del teatro comico del mondo classico (“Zanni” deriva dal greco sannos, che indica uno sciocco, uno stupido, ma è anche affine al nome Zan o Zuan, che è la versione veneta e lombarda di Gianni) poi diventato un personaggio tipico della Commedia bergamasca. La maschera di Zanni rappresenta il classico servitore, ma può essere declinata in due figure contrapposte: da un lato c’è il Zanni tonto, credulone e sciocco, dall’altro si trova il Zanni astuto, il servitore sveglio, malizioso e spregiudicato. Arlecchino deriva proprio da questo Zanni furbo, e verso il 1500 è diventato un personaggio a sé stante, allegro e sagace, sempre pronto a raggirare il suo padrone, Pantalone, e intento a sedurre la bella Colombina.
Halloween e Carnevale
Uno degli aspetti più interessanti e poco noti del tempo di Ognissanti è la sua analogia con il Carnevale. L’usanza di travestirsi da spettri, mostri e streghe non è una novità commerciale degli ultimi anni, anzi: risale a tempi molto antichi, quando il travestimento era associato al culto dei defunti. In epoca romana ci si travestiva anche nei giorni che vanno dal Natale all’Epifania, così come nelle feste invernali dei Saturnalia, che erano, proprio come il tempo di Ognissanti, una festa propiziatoria della fertilità della terra e dell’abbondanza dei campi grazie all’intercessione degli antenati.
Per questo le più importanti e le più antiche maschere risalgono a tempi immemorabili, e originariamente rappresentavano esseri del mondo infero, demoni e anime dei morti. Da un lato, per onorare i defunti; dall’altro, per confondere spettri e diavoli, che se non riconoscono un essere vivente sotto il travestimento anziché tormentarlo lo lasciano in pace.
La Caccia Selvaggia
Nel folklore italiano ed europeo al Tempo dei Morti è associata la cosiddetta “Caccia selvaggia” (detta anche “caccia stregata”, o “masnada furente”, “schiera infernale”) ovvero una processione spettrale di spiriti dannati, a cavallo di cavalcature demoniache, che si aggira nella notte – soprattutto nelle notti “di passaggio” dell’anno – terrorizzando chiunque dovesse incontrarla. La Caccia selvaggia, che in Italia fa parte del folklore soprattutto delle zone alpine e prealpine, dove è arrivata dalla Francia e dalla Germania, è composta da anime senza pace che vagano sulla terra, invisibili ma estremamente chiassose, guidate da divinità pagane, talvolta elleniche (la dea Diana) o nordiche (Odino, con o senza la moglie Frigga al suo fianco), da personaggi biblici (Erodiade) o appartenenti alla tradizione popolare (Madonna Oriente, Berchta, Re Artù). Questa tremenda processione si aggira, al suono di tamburi, sonagli e campanelli, su villaggi e foreste, spaventando chi li dovesse ascoltare e prendendo con sé gli sventurati mortali che dovessero trovarsi sul suo cammino.
E quindi, Arlecchino?
Già, Arlecchino… la prima attestazione scritta dell’esistenza di questa schiera furiosa risale a un documento del 1140, la Historia ecclesiastica del monaco inglese Orderico Vitale, dove il macabro corteo è chiamato la “Masnada di Hellequin”. Ti ricorda qualcosa? Ma certo: il nome Hellequin, da cui deriva “Arlecchino”, a sua volta viene da Helle King o Helle Koenig, ovvero proprio il Re (king) dell’Inferno (hell). Ma c’è dell’altro: nella mitologia turca, mongola e siberiana compare Erlik, il dio sciamanico della morte e dell’inferno, giudice dei defunti, dio del male e dell’oscurità, padre di nove figli e nove figlie che portano sciagura e morte agli esseri umani. L’appellativo nobiliare turco-mongolo è Khan; il dio sciamano, a cui si facevano offerte di drappi di stoffa colorata, era onorato con il nome di Erlik Khan, diventato poi Arlik Qan… ed ecco un’altra derivazione, non soltanto etimologica, per il nostro bonario e multicolore Arlecchino.
Hellking, Hellequin, Herlequin era quindi il dio paredro della Dea-sacerdotessa dai molti nomi: Ecate, Diana, Erodiade, Berchta, Abundia, Reitia, ma anche Venere, dea doppia perché si manifesta come stella della sera – Venere vespertina – e stella del mattino – Venere luciferina. E un demone chiamato Alichino compare anche nella Commedia dantesca: fa parte delle Malebranche, un drappello di diavoli deputati a controllare i dannati dell’ottavo cerchio.
Arlecchino è quindi di casa all’inferno ma anche, grazie al suo legame con Venere, con la volta celeste. È armato di un bastone – il batocio veneto, da cui deriva la celebre battuta della Commedia dell’Arte “mi son Arlechin batocio / orbo da na recia e sordo da un ocio” – che altro non è che il bastone sciamanico, l’Albero del Mondo che collega il regno sotterraneo a quello celeste, che poi, di leggenda in leggenda, è diventato la scopa volante delle streghe e la bacchetta magica dei maghi. Tradizionalmente sul volto porta una bauta nera, unico elemento oscuro in tutto quel tripudio di colori, simbolo del mistero e della notte profonda, su cui la maschera scherzosa regna sovrana.